EDITORIALE NOVEMBRE
A novembre festeggio un compleanno importante, 60 anni, trenta dei quali passati a lavorare come giornalista in televisione. Gli ultimi quattro, invece, sono stati rivoluzionati da un cambio totale della mia vita professionale con la creazione di una start up, Crida, e con il nuovo lavoro da imprenditrice nel campo della moda. Non mi pento affatto di aver avuto il coraggio di cambiare, ritengo anzi che ogni cambiamento, con tutto il bagaglio di studio e preparazione che impone, aiuti a restare giovane e sia prima di tutto una sfida con te stessa che non può che renderti migliore. Ma mai avrei pensato di arrivare a lavorare in questo settore in un momento così difficile e complicato soprattutto per chi ha deciso nel 2020 di fare nascere un brand basato sull’eleganza in italiana, fortemente made in Italy e assolutamente sostenibile.
Sono a mio parere due i fattori che hanno totalmente ribaltato le regole: da una parte la pandemia che ha radicalmente cambiato le abitudini dei consumatori, meno disponibili oggi a spendere per l’abbigliamento, e alla ricerca piuttosto di esperienze da vivere, come ristoranti, viaggi, week end. Non a caso c’è stato un crollo delle grandi piattaforme di moda on line, con la conseguente crisi di mercati asiatici come la Cina, e la innaturale necessità dei negozi fisici di mettere la merce in saldo poche settimane dopo aver ricevuto i prodotti, pur di attirare clienti.
Dall’altra parte si è creata una frattura e un divario sempre più profondo tra i brand di lusso che, pur diminuendo sensibilmente i fatturati, continuano ad essere sostenuti da uno zoccolo duro di compratori alto spendenti e il fast fashion che, nato con l’intento sfacciato di copiare rapidamente i modelli dei grandi brand con prezzi bassissimi e materiali ovviamente scadenti , oggi cerca di ampliare la sua fetta di mercato alzando la bandiera della sostenibilità e proponendosi come il nuovo pret a porter che contrasta l’alta moda.
Bisogna stare attenti però, perché’ le parole e le immagini che alcuni brand usano per lanciare questa sfida non bastano.
Penso a Zara, ad esempio, con i suoi 7000 negozi in 100 paesi del mondo, con il suo impero da 20 miliardi di dollari di vendite annuali, che ha da poco lanciato una comunicazione pubblicitaria con un’immagine patinata: da Stefano Pilati come designer a una campagna per intenderci non dissimile da quella di Gucci e YSL, per trasmettere l’idea di abiti non solo economici ma anche belli, fatti bene, sostenibili. Ma l’obiettivo è comunque continuare a crescere, con un ritmo del 10% annuo per immettere sempre più abiti sul mercato, che sempre più rapidamente diventeranno fuori moda andando ad inquinare i paesi più poveri dell’Asia e dell’Africa.
I mezzi economici a loro disposizione sono imponenti a differenza di quelli di tantissimi altri brand che occupano una fascia di mercato più piccola ma di qualità più alta, che lavorano sul territorio e usano realmente tessuti naturali, manodopera pagata dignitosamente e devono ovviamente offrire del prodotto a prezzi più alti. E quindi fanno molta più fatica.
Sapete quanti vestiti vengono prodotti mediamente all’anno? 150 miliardi. Ma noi siamo solo 8 miliardi di persone.
Persone che potrebbero fare la differenza se scegliessero consapevolmente di comprare meno e di comprare meglio, di scegliere abiti che non siano di fibre sintetiche (anche se sulle etichette il poliestere oggi viene sbandierato come riciclato, sempre plastica resta), di verificare dove vengono prodotti i capi che acquistano.
Crida certamente fa parte di quelle moltissime aziende che producono poco e bene, che spendono tanto per far lavorare la manodopera e scelgono con cura i tessuti da usare, solo con fibre naturali. Facciamo soltanto due collezioni l’anno e crediamo nella moda che dura nel tempo, negli abiti da tenere nell’armadio per anni, nell’eleganza delle stoffe prodotte nel nostro paese. Non facciamo campagne pubblicitarie grandiose perché’ non abbiamo i mezzi e perché’ preferiamo investire nei prodotti e nelle persone. E soprattutto perché’ crediamo fortemente nella moda italiana, in quel pret a porter di qualità’ che non può e non deve sparire per colpa del fast fashion.