Editoriale Novembre
Non si è mai parlato così tanto di moda sostenibile come in questo periodo. Tanto che, ve lo confesso, il termine sostenibilità mi è quasi venuto a noia. Ma per evitare che, come il bla bla bla denunciato da Greta riguardo all’impegno per il clima, l’essere sostenibili rimanga una parola attraente ma vuota, vale la pena cercare spiegarla meglio.
La moda sostenibile è quella moda che rispetta l’ambiente e la società in tutte le sue fasi: quindi dalla concezione, alla produzione passando per la distribuzione fino alla vendita. Concetto facile da dire ma un po’ meno da mettere in pratica. E sapete perché?
Perché il settore della moda è una sorta di entità tentacolare che comprende il tessile, il manifatturiero, la pelletteria ma anche tutta la filiera della produzione e del trasporto, fino ad arrivare ai retail, cioè i negozi. Produce, secondo le ultime stime, 2,4 mila miliardi di dollari, impiega circa 50 milioni di persone, ed è considerata la seconda industria più inquinante al mondo, dopo quella petrolifera. Come si è arrivati a questo punto? È accaduto quando è nato il consumismo di massa e la sartorialità artigianale hanno lasciato il posto ad una corsa sfrenata a creare, produrre e comprare sempre con maggiore frequenza. L’ascesa delle grandi maison di moda negli anni ’80 e poi l’esplosione dei colossi del fast fashion hanno dato vita ad un sistema nel quale le collezioni si susseguono rapidamente ed altrettanto rapidamente si consumano per restare aggiornati con le nuove tendenze. Non solo. Per mantenere questi elevati ritmi produttivi sono state dislocate le produzioni nei paesi del cosiddetto terzo mondo, impiegando milioni di persone senza le adeguate garanzie. La conseguenza inevitabile è che la mole di produzione destinata ad un utilizzo quasi “usa e getta” ha avuto un costo enorme in termini di inquinamento e spreco di risorse, in particolare modo l’acqua.
Quindi capirete che rendere sostenibile la moda a livello globale significa apportare una enorme, sostanziale differenza nel sistema economico e sociale che coinvolge direttamente un grandissimo numero di persone, e indirettamente tutti noi. Ma è un traguardo fondamentale da raggiungere.
Partiamo da ciò che dovrebbero fare le aziende: sicuramente lavorare con materie prime meno inquinanti, ridurre gli sprechi nella produzione come i costi di acqua ed elettricità, usare la produzione in loco sul territorio per non fare viaggiare le merci e creare prodotti durevoli, stimolando il consumo consapevole. Ovviamente questo modello economico prevede anche una produzione più limitata che va a vantaggio della qualità, e la tutela della componente umana dell’industria della moda. Le grandi maison ovviamente hanno capito che questa è una strada obbligata per non perdere credibilità da parte di una clientela sempre più attenta, e lanciano capsule collection con materiali riciclati e investono in nuovi materiali eco-friendly. Dopo Stella Mc Cartney, che è stata una pioniera, Gucci in ambito abbigliamento e accessori e Chopard nella gioielleria hanno ricevuto il riconoscimento Eco-Age Brandmark per il loro impegno verso la sostenibilità. Hermes entro la fine dell’anno ha annunciato che realizzerà una nuova versione della sua iconica Victoria bag in cuoio vegano ricavato dai funghi. Ma anche il recupero e il riutilizzo dei materiali, più sfruttato da giovani designer e nuovi brand, rivela un versante attento all’impatto ambientale della moda.
Io e Daniela abbiamo fatto parte della giuria di un bellissimo premio dedicato al green design e tutti i giovani studenti che hanno partecipato hanno proposto abiti e accessori ricavati da materiali naturali che vanno dalle bucce d’arance, al sughero alla ginestra fino ai mozziconi riciclati delle sigarette. Ma al di là della speranza per il futuro che arriva certamente dalle nuove generazioni, io credo che tutti siamo coinvolti in questa necessaria rivoluzione. Perché ognuno di noi è, anche suo malgrado, attore e vittima di questa industria. Lo insegnava la iconica Miranda Priestly ne “Il diavolo veste Prada” alla sua ingenua assistente, spiegandole il percorso compiuto nella moda per arrivare a farle comprare il maglioncino azzurro infeltrito che indossava… ricordate? Cambiare il fashion system significa poter essere parte di un cambiamento globale semplicemente comprando un pullover.
E allora ricordatevi di pensare quando comprate, di controllare le etichette, le composizioni dei tessuti e rendetevi conto che il vostro gesto, compiuto con consapevolezza e ripetuto da milioni di persone, potrebbe fare la differenza per la salvaguardia dell’ambiente. La moda, non dimentichiamolo, non è solo frivolezza e apparenza, ma economia, etica e società.
P.S. Crida, lo diciamo con orgoglio, è un’azienda totalmente sostenibile. Se ci seguite e ci conoscete sapete che usiamo solo tessuti naturali, senza fibre sintetiche. Li compriamo in Italia e produciamo nelle manifatture del territorio tra Bergamo e Milano. Sappiamo bene che chi fa impresa oggi non può prescindere dall’attenzione per l’ambiente. Ecco perché l’obiettivo del nostro progetto è stato, fin dall’inizio, puntare sulla qualità e sul Made in Italy e creare abiti con l’idea che debbano restare a lungo nell’armadio, abiti da amare e conservare con cura. Anche questo vuol dire sostenibilità.