Editoriale maggio
Se siete, come penso, appassionate di moda e se siete, come spero, persone consapevoli e interessate, guardate la serie Junk – Armadi pieni. Troverete probabilmente qualcosa che fotografa i vostri comportamenti e che sicuramente tocca le vostre coscienze.
Compriamo tutti troppo: si chiama oniomania la sindrome figlia di questi tempi che spinge all’acquisto sfrenato e impulsivo creando una vera e propria emergenza all’ecosistema mondiale. Ovviamente il problema non parte da qui, è a monte nell’industria del settore, ma anche le scelte individuali possono fare la differenza. E Junk lo spiega molto bene.
Partiamo da questo dato: nonostante si compri troppo e male oggi l’industria del fashion produce ancora di più. Pensate che solo un terzo dell’abbigliamento che arriva nei negozi viene acquistato e quel che resta di capi e accessori invenduti continua ogni anno ad alimentare le mega discariche di abiti.
Ma prima di arrivarci nelle discariche molto spesso questa merce compie viaggi immensi intorno al globo come ha chiarito un’inchiesta interessantissima dell’Internazionale che ha indagato sui resi di Zalando (anche 480 ordini al minuto, metà dei quali viene rimandata indietro). Tracciando con micro GPS dieci capi comprati online e restituiti, ha potuto verificare che nel giro di due mesi questi vestiti hanno percorso quasi 30.000 km tra Svezia, Danimarca, Germania, Polonia e poi di nuovo Svezia prima di arrivare in un centro di stoccaggio dove dovrebbero essere distrutti, ma nessuno lo conferma. E parliamo di uno dei giganti dell’industria dell’abbigliamento che dice di voler essere sostenibile. Il settore moda online, anche a causa dei resi, emette più anidride carbonica di tutti gli aerei e di tutte le navi del mondo messe insieme.
Ma torniamo alle discariche.
La docuserie Junk prodotta da Will Media e Sky Italia e realizzata da Olmo Parenti (giovane e bravissimo video maker già autore di film di denuncia come “One day one day”) mostra le immagini che non abbiamo mai visto di vere e proprie montagne di vestiti grandi come una città, e racconta la storia di persone ed ecosistemi che subiscono direttamente l’impatto negativo del fast fashion: dal Ghana al Cile, Indonesia, Bangladesh, India e Italia.
Pensate che solo in Europa vengano scartati 5,8 milioni di tonnellate di vestiti ogni anno (11kg di scarti di vestiti a persona!). In Ghana ogni settimana arrivano 15 milioni di vestiti. Finiscono sulle spiagge nelle città e, come dice a “Io Donna” Matteo Ward (conduttore e coautore della serie), questi nostri scarti diventano i nuovi colonizzatori dei paesi poveri. Se a ciò si aggiunge lo sterminio di 300 milioni di alberi in Indonesia per fare spazio alle coltivazioni di rayon (che ricordiamolo è una fibra naturale perché ricavata dalla corteccia ma si ottiene con un processo chimico e con coltivazioni intensive) a scapito delle comunitè di nativi della giunga e del loro ecosistema, si capisce facilmente che quello della esagerata produzione del fast fashion è un problema colossale e che non si è ancora sufficientemente informati sui danni che sta provocando all’ambiente. Ciò che sappiamo è che il 10% delle emissioni di carbonio e il 20% dell’inquinamento oceanico deriva dal settore moda e, altro dato impressionante, su 75 milioni di lavoratori meno del 2% vanta un salario degno di sopravvivenza. Se fino a qualche decennio fa conoscevamo quasi sempre chi tagliava e cuciva i nostri vestiti oggi è impossibile per il consumatore risalire alla filiera produttiva fatta di un circolo assai poco virtuoso di infiniti subappalti, soprattutto nei paesi più poveri.
L’attenzione a questo problema da parte dei grandi gruppi, va detto, è sempre più alta. Oggi non si può nella moda fare comunicazione senza raccontare di essere ecofriendly ma a sentire gli esperti di questo settore in realtà nessun marchio riesce a essere totalmente sostenibile. Ci sono vari modi di esserlo ma certo per i brand più giovani il processo da seguire è molto più costoso. Lo sappiamo bene noi di Crida che fin dall’inizio abbiamo deciso di creare i nostri abiti solo con tessuti naturali e senza fibre di poliestere, anche se questi tessuti costano molto di più. Ancora di più se si tratta di sete e cotoni italiani: quelli che acquistiamo noi e che non arrivano dall’Asia evitando così di far viaggiare le merci e riducendo l’inquinamento. Grazie all’attivismo di organizzazioni importanti come Fashion Revolution Italia e alle richieste di molte ONG, l’Unione Europea è finalmente intervenuta per regolare la legislazione sul tessile con una legge che entro due anni renderà obbligatorio l’eco design che obbligherà le aziende a usare solo materiali riciclabili e a essere responsabili dei prodotti che creano in eccesso, destinando questa massa incredibile di capi al riciclo e allo smaltimento. Ma ognuno di noi è chiamato a fare la sua parte.
Comprare meno e comprare meglio è un mantra che io e Daniela ripetiamo dalla nascita di Crida. Ora aggiungiamo: produciamo meno e produciamo meglio. Solo se ci sarà un cambiamento radicale nell’etica del business delle grandi aziende e nell’acquisto più consapevole della gente si potrà porre rimedio ai disastri ecologici e ambientali che alcune aree del mondo stanno subendo. Nessuno può far finta di non sapere e ognuno può agire meglio. Quello che mi è piaciuto di Junk è il fatto che sia un progetto nato per generare consapevolezza su una emergenza mondiale forse ancora poco nota, ma anche volto a farci capire che il cambiamento è ancora possibile e che in questa partita per salvare il pianeta tutti abbiamo un ruolo da giocare.