Editoriale giugno
Angelina Jolie è l’ultima in ordine di tempo fra le celebrities ad avventurarsi nel mondo della moda ma, a differenza di molte altre colleghe e colleghi famosi, lo fa a modo suo tenendo un profilo decisamente basso e per questo ancor più interessante. Lungi da lei l’idea di produrre indumenti da distribuire nei centri commerciali o di inseguire le ultime tendenze del fashion, l’attrice, da sempre paladina dei diritti umani e delle politiche ambientaliste, chiarisce subito di voler usare solo materiale vintage e tessuto deadstock per le sue creazioni e anche di voler puntare non sui loghi e sull’immagine del brand ma sulla valorizzazione di produttori, fasonisti e sarti, quindi sulla manodopera meno conosciuta di questo settore. Mi ha incuriosito questa novità che riguarda un’attrice da sempre molto controcorrente e super impegnata nel sociale. Di solito le grandi star, dalle Kardashian a Sara Jessika Parker a Jennifer Lopez per citare solo le tre più note, hanno creato con il loro nome veri e propri imperi di fast fashion, di cui forse non si sentiva la necessità, con una massiccia distribuzione in grandi magazzini e store di lusso: prezzi altissimi, materiali non proprio sostenibili, unico valore il nome del brand.
L’Atelier Jolie, così si chiama la nuova avventura imprenditoriale di Angelina, sembra orientato verso obiettivi diametralmente opposti, tanto da definire la sua nuova impresa un collettivo.
I designer, dice la Jolie, spesso disegnano o approvano disegni, ma sono i sarti quelli che fanno la differenza, anche se purtroppo sono proprio quelli che vengono meno valorizzati e apprezzati. Il suo Atelier invece deve essere un luogo in cui le persone creative possono collaborare con una famiglia esperta e diversificata di sarti, modellisti e artigiani di tutto il mondo. Sono molto curiosa di vedere che tipo di prodotto verrà realizzato: se somiglierà allo stile dell’attrice molto low profile, basico e materico nella scelta dei suoi outfit e sempre estremamente speciale, ma fin d’ora mi sento di apprezzare la scelta di mettere al centro la manodopera e l’artigianato in chiave sostenibile e inclusiva più che i maxi loghi e le campagne sugli schermi di Time Square.
A questo proposito mi ha colpito un’intervista a Brunello Cucinelli nella quale l’imprenditore e creatore di una vera e propria azienda famiglia in Toscana, sottolineava il problema che i fasonisti italiani, fondamentali e sempre più rari, facciano fatica a guadagnare abbastanza da convincere i figli a continuare questa professione. Le aziende manifatturiere, che producono in serie migliaia di capi guadagnano, ma i fasonisti, coloro che sono in grado di confezionare un capo d’abbigliamento attraverso un modello di riferimento (dato dal designer), quindi i sarti di una volta, non sono così ben retribuiti. Oggi il mercato della moda ricerca sempre più in Italia figure di questo livello, acquistando le aziende stesse e inglobandole in quelle dei grandi brand, con la conseguenza di fare sparire questa figura professionale artigianale che prima si tramandava da padre in figlio.
Noi di Crida, anche se per altre strade, inseguiamo come Angelina Jolie una moda sostenibile e rispettosa di persone e ambiente e facciamo fatica a trovare fasonisti alla nostra portata proprio perché non abbiamo ancora i numeri dei mega brand ma non possiamo nemmeno produrre migliaia di abiti in una sartoria. Eppure le piccole medie aziende rappresentano il tessuto produttivo più importante che sostiene l’economia italiana e come tale dovrebbe essere maggiormente aiutato e tutelato dal governo. L’artigianato italiano nel settore moda rappresenta un’eccellenza straordinaria: sarebbe bello che continuasse a vivere autonomamente e non si dovesse svendere ai grandi gruppi mangiatutto del lusso globale.